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DUCCIO COLOMBO

Babij Jar: lo sterminio taciuto e l’arte dell’eufemismo

Abstract

Confrontando le poesie dedicate al massacro di Babij Jar (lo sterminio metodico di tutta la popolazione ebraica rimasta a Kiev dopo la conquista nazista) da Il’ja Erenburg ed Evgenij Evtušenko dovremmo con ogni probabilità considerare superiore quella del primo. La sua qualità poetica deriva in gran parte dall’uso dell’allusione, del non detto, che apre spazi semantici superiori; questa caratteristica deriva però probabilmente da un caso di necessità: Erenburg, che scriveva nel 1945, cercava evidentemente una strada per far penetrare alla stampa una commemorazione delle vittime di Babij Jar in un periodo in cui, in Unione Sovietica, era impossibile farlo in modo più esplicito – nella prima edizione, la poesia era senza titolo e il collegamento all’episodio di Babij Jar poteva solo essere dedotto. L’effetto della poesia di Evtušenko, d’altro canto – incluso l’effetto sulla carriera del poeta – discende completamente dal suo carattere violentemente esplicito: la conclusione logica è che il valore politico del testo sia superiore a quello poetico. Non bisogna dimenticare, però, lo sforzo di rinnovamento della poesia attraverso l’inclusione di materiale marcatamente impoetico, dove il linguaggio politico assume un valore analogo all’uso del turpiloquio in Majakovskij.