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MARINA CALOGERA CASTIGLIONE

Una perifrasi traduttiva per una regina rimossa. Torsioni onomastiche in "Cima delle nobildonne" di Stefano D'Arrigo

Abstract

Molto si è scritto sulla “lingua horcynusa” di Stefano D’Arrigo e del suo maestoso Horcynus Orca, romanzo in cui si battezza un nuovo codice linguistico fondato sulla stratificazione e sulla neologia virtuosistica il cui scopo non è tanto indicare con precisione, quanto evocare. Assai meno studiato, probabilmente per il ricorso ad una lingua asciutta, scientifica, quasi anonima, risulta il romanzo epigono della sua carriera letteraria, Cima delle nobildonne, apparso dopo una lunga pausa decennale nel 1985. Le ragioni del titolo stanno tutte nella volontà/opportunità/necessità di celare l’antroponimo che ha ispirato la narrazione, quello dell’unica donna faraone dell’antico Egitto, Hatshepsut. Di certo a ispirare il protagonista del romanzo, il dottor Planika è la rimozione della figura della faraonessa, regina adolescente al momento del suo insediamento sul trono, minacciata dalla presenza scomoda del figliastro Thutmosi. Tra nomi rimossi, evocativi, parziali, manipolati, l'intero romanzo costruisce una dinamica di vita-morte imperniata sulla placenta. Tutto il romanzo ruota, infatti, intorno a un’angoscia di morte e sterilità, incarnata e allo stesso tempo sublimata dall’ermafrodita Amina, che si sottopone ad un intervento inconcepibile per diventare una donna che non potrà mai procreare, al contrario delle “tre giovanissime Moglie Anziane” dell’Emiro Saad Ibn as-Salah, convinto di essere la reincarnazione del faraone Narmer, il primo a portare in corteo la sua stessa placenta.