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DARIO RUSSO

Progettare un marchio | Dalla reiterazione assoluta al processo genetico

Abstract

Tra i lavori che possono capitare a un progettista grafico il marchio è senz’altro uno dei più stimolanti. È come scrivere un testo arguto che raccoglie l’essenza di qualcosa e la rende immediatamente accessibile. Non è facile, o meglio non è facile prima di essere difficile, perché, come insegna Bruno Munari: «semplificare è un lavoro difficile ed esige molta creatività. Complicare è molto più facile, basta aggiungere tutto quello che ci viene in mente» . È possibile allora definire la formula del successo d’un marchio? A quanto pare, no, purtroppo o per fortuna. Sarebbe troppo facile, e il marchio – dicevamo – è difficile. Un punto fermo – o per lo meno un buon punto di vista – per la progettazione di un buon marchio forse c’è; non è una regola assoluta né tanto meno una formula matematica; è piuttosto un approccio sensato, anzi puro buon senso applicato al progetto grafico: la forma del marchio deve essere semplice. Di più. Deve essere quanto più semplice possibile, oltre che riconoscibile e memorabile. Ciò significa che, se per semplificare bisogna rimuovere di un pezzo di comunicazione necessaria, allora conviene fermarsi e fare un passo indietro. Del resto, basta guardarsi intorno per verificare quest’affermazione: i marchi migliori, quelli che tutti ricordano, capaci di trapanare il muro del tempo, sono invariabilmente semplici: una stilizzazione dell’idea come lo swoosh Nike o una schematizzazione della cosa come la conchiglia Shell. Per esemplificare il ragionamento, in questa breve nota, descrivo due marchi che ho contribuito a sviluppare, uno come tutor di un workshop universitario sulla Genesi di un’immagine (giugno-novembre 2015), per l’Associazione Italiana Studenti di Architettura (AISA), e l’altro come relatore della Tesi di Laurea di Gabriele D’Asaro sulle Identità dinamiche (Corso di Studi in Disegno industriale, 2013), nel Dipartimento di Architettura di Palermo.