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PASQUALE MEI

Serendipità

Abstract

Il termina serendipità fu coniato dallo scrittore Horace Walpole in inglese (serendipity) il 28 gennaio 1754 in occasione di una lettera scritta al suo amico diplomatico Horance Mann. Il contenuto della sua missiva riguardava le indagini retrospettive sugli intrighi delle famiglie aristocratiche fiorentine attraverso quello che lui stesso definiva “sortes walpoliniane”. Ovvero della capacità magica per cui «trovo tutto ciò che desidero, ovunque io affondi la mano» (Pievani, 2021: 39). Le definizioni chiave usate da Walpole erano “sagacia accidentale” e “scoprire qualcosa che non si stava cercando” facendo riferimento al testo di origine persiana, tradotto in inglese nel 1722 (The Travels and Adventures of Theree Princes of Serendip). Il racconto tradotto precedentemente (1548) da Cristoforo Armeno e intitolato Viaggi e avventure dei tre principi di Serendippo ha come tema quello dell’arte indiziaria, ovvero della «capacità di risalire da dati sperimentali apparentemente trascurabili a una realtà complessa non sperimentabile direttamente» (Ginzburg, 1986: 166). Un’arte che permette ai tre giovani principi di analizzare, confrontare e classificare: tracce, orme, segni, sintomi e indizi lungo il loro viaggio. Una esperienza iniziatica, di natura progettuale, finalizzata a mettere in atto una tecnica abduttiva, che, come quella induttiva, non si affida alla validità logica e può essere verificata solo attraverso azioni empiriche. «Cosa fa uno studioso che deve aprire una scatola di conserve su un’isola deserta se non dispone di alcun arnese?» (Corboz, 1998: 159).