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MANOELA PATTI

Pratiche repressive e ridefinizione del paradigma mafioso”tra aule di tribunale e colonie di confino (1925-1938)

Abstract

Nell’ottobre del 1925 Mussolini inviava a Palermo il prefetto Cesare Mori con il compito di sradicare la mafia dalla Sicilia. Fino al 1929 Mori condusse una massiccia campagna antimafia, che si colloca comunque tra le cicliche fasi di repressione statuale del fenomeno mafioso, la prima delle quali risale all’Ottocento postunitario. Sennonché, negli anni del fascismo obiettivi politici, pratiche repressive e dibattito giuridico sulla mafia si intrecciarono strettamente. Il contributo vuole indagare sia la specificità delle pratiche poliziesco-giudiziarie di repressione del fenomeno mafioso durante il fascismo sia i riflessi della campagna antimafia nel dibattito giudiziario-criminologico. Nel 1925 la questione mafiosa tornò infatti al centro del dibattito pubblico, laddove rappresentò il banco di prova del fascismo in Sicilia. La svolta totalitaria nell’isola si concretizzò in un violento attacco alla mafia intesa al contempo quale grave minaccia per l’ordine pubblico e quale reificazione dei clientelismi e dei personalismi dell’età liberale. L’antimafia divenne il terreno sul quale dimostrare il carattere rivoluzionario dello Stato fascista, capace di agire dove lo Stato liberale aveva fallito; l’azione attraverso la quale conquistare quel consenso tra le masse che in Sicilia al fascismo ancora mancava. Oltre che operazione poliziesca, la campagna del regime fu pertanto anche operazione politica, e assunse lo stesso valore dei grandi progetti di bonifica nazionale: lo Stato fascista “rigeneratore” avrebbe finalmente e definitivamente “bonificato” l’isola dalla delinquenza mafiosa. Dall’azione di Mori scaturirono in effetti migliaia di arresti (forse 11.000 entro il 1929) e più di 100 processi - talvolta veri e propri maxiprocessi ante litteram - nei quali la linea scelta dalla magistratura fu quella di condannare gli imputati per la semplice “associazione a delinquere” e di utilizzare le fonti poliziesche, principalmente i verbali, quali prove sufficienti. Gli avvocati penalisti chiamati a difendere i mafiosi recuperarono quel “paradigma mafioso” (Pezzino, 1990), storicamente condiviso dalla mafia e dalla cultura avvocatizia, che faceva appello alla retorica dei codici culturali, e che però nel contesto dell’avvento del fascismo veniva riformulato anche in difesa delle libertà politiche e dello stato di diritto. Lo scarto fra retorica e realtà dell’antimafia fascista - enfaticamente propagandata dal regime - fu comunque consistente; lo mostra anche la ripresa del fenomeno mafioso negli anni Trenta. La “seconda” ondata repressiva che ne conseguì si svolse in sordina, affidata soprattutto agli organi di polizia, che la condussero attraverso lo strumento del confino e attraverso l’azione di un organismo poliziesco speciale, l’Ispettorato generale di pubblica sicurezza per la Sicilia. L’”accelerazione totalitaria” degli anni Trenta ebbe importanti riflessi nella struttura degli organi polizieschi e nelle modalità di persecuzione di criminalità e dissenso; reale o presunto che fosse. Le operazioni di polizia conservarono la violenza degli anni Venti, ma divennero “silenziose”, a sostegno dell’“utopia totalitaria” (Lupo, 1987) di una società pacificata. Uno degli strumenti privilegiati delle forze dell’ordine fu il confino di polizia, che accomunava delinquenti comuni, mafiosi, oppositori politici; chiunque fosse riconosciuto come una minaccia per il regime. Centinaia di mafiosi, spesso già processati negli anni Venti, vennero mandati nelle colonie penali. Fu in definitiva la pratica del confino, molto più delle retate del decennio precedente, ad assestare un duro colpo alle cosche siciliane.