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ETTORE SESSA

L’oltremare nel rinnovamento dell’Urbanistica italiana

Abstract

In Italia in poco più di un lustro, a partire dal 1932, un orientamento perseguito da una compagine di giovani progettisti (architetti e ingegneri), preceduto da alcuni isolati piani regolatori di concezione avanzata e di impronta scientifica (basati ora sull’attenzione alla natura e al valore del luogo e sulle direttrici e valenze economiche del territorio), configura in ambito urbanistico una sorta di tendenza innovativa. Quasi a consuntivo di questa prima stagione, nel 1937, il Primo Congresso Nazionale dell’Urbanistica a Roma tende a liquidare radicalmente, non senza ambiguità, le remore passatiste in materia di progettazione urbana introducendo criteri analitici e nuove logiche di impalcati progettuali (fra i quali il principio della zonizzazione), ponendo anche le basi per la legge del 1942. Ma, paradossalmente, il nucleo più operativo di questa “Nuova Urbanistica” italiana, supportato (sia pure cautamente) da pochi esponenti dei vertici accademici, sarà quello impiegato nella onerosa manovra di valorizzazione economica dei territori del riformato sistema dell’Oltremare italiano, soprattutto in relazione alle nuove acquisizioni territoriali promosse dall’aggressiva impennata imperialista del regime fascista. È proprio con l’attività progettuale nell’oltremare di giovani come Gherardo Bosio, Ignazio Guidi, Guglielmo Ulrich e Cesare Valle che quella dell’Urbanista comincerà a configurarsi, nonostante le tante ombre proprie delle logiche coloniali (prima fra tutte la prassi segregazionista), come una professione di etica e al tempo stesso di scienza della progettazione per la collettività, preparando il terreno alla vocazione (invero poi disattesa) all’impegno sociale delle componenti migliori della cultura urbanistica italiana negli anni della Ricostruzione.