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GIUSEPPE DI BENEDETTO

Dagli Afflitto ai Ventimiglia ai Riso: Palazzo Belmonte metafora della città

Abstract

Esistono architetture le cui travagliate vicissitudini, se comprese in rapporto con la storia della città cui appartengono, finiscono per far assumere, alle stesse architetture, un ruolo emblematico e simbolico. Se, oltretutto, la città di riferimento per queste architetture è Palermo, si finisce per constatare, inevitabilmente, come la sua principale attitudine sembra essere stata, nel corso di una lunga storia edificatrice, una disseminazione di architetture o di fatti urbani in cui rispecchiarsi, in quanto vere e proprie sineddoche, parti rappresentative del tutto. Sembrerebbe, quasi, che Palermo ritragga se stessa, con le sue molteplici contraddizioni, in molte delle architetture che più la rappresentano e ne riproducono la "forma" intesa come eidos, nella sfera concettuale del lógos e nelle relazioni di questo con il mýthos. Parafrasando il celebre aforisma di Karl Kraus, «in un vero ritratto si deve riconoscere quale pittore esso rappresenta», e traslitterandolo dall’arte pittorica a quella architettonica, potremmo affermare che in ogni “vera architettura”, se profondamente radicata nella cultura e nella storia di un luogo, si dovrebbe poter identificare la città o l’idea di città che raffigura. Palazzo Ventimiglia di Belmonte è senza alcun dubbio una di queste effigi urbane intrise di una dimensione simbolica e mitopoietica per certi versi unica. Essa è, infatti, una delle dimore nobiliari più emblematiche, simboliche e paradigmatiche e rappresentative della città intra mœnia, nonostante nella sua immagine e nella sua residua configurazione fisica attuale, evocatrice di una straordinaria e aulica condizione ormai definitivamente perduta, mostri una facies temporalmente più vicina al nostro presente che alle millenarie origini della Panormos fenicio-punica nel cui cuore sorge e si erge.