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ARMANDO BISANTI

Ildeberto di Lavardin, Balderico di Bourgueil e il mito di Ganimede fra echi ovidiani e condanna moralistica

Abstract

Il mito di Ganimede, il bellissimo giovinetto rapito da Giove trasformatosi in aquila e condotto sull’Olimpo perché fosse insieme il coppiere degli dèi e l’amante del dio, affonda le sue radici nella cultura e nella letteratura greca e latina. Già in Cicerone, per es., comincia a comparire quella che sarà una nota distintiva che accompagnerà la narrazione del mito soprattutto fra i primi scrittori cristiani e durante tutto il Medioevo, ovvero l’aperta condanna moralistica degli amori omosessuali fra Giove e Ganimede. In quest’intervento l’attenzione si concentra sul trattamento del mito da parte di Ildeberto di Lavardin (carm. min. 33 Ad S. nepotem; 48 ‹De Ganimede›) e, soprattutto, di Balderico di Bourgueil, che a più riprese ricorre all’exemplum di Ganimede (carm. 3, 23-25; 7, 118-122; 8, 107; 77, 94-107; 134, 183-184; 154, 237-250). In entrambi i poeti dell’XI-XII secolo – come emerge dalla disamina dei vari passi – la narrazione e la visione stessa della vicenda omoerotica di Giove e Ganimede vengono proposte alla luce di una diffusa imitatio classica (soprattutto Ovidio) e, al contempo, di una ferma condanna moralistica che talora, sulla scia dell’interpretazione del racconto già avanzata da Fulgenzio (e poi dagli autori dei Mythographi Vaticani), si apre a una diffusa forma di allegorizzazione.