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ANTONELLO RUSSO

Progettare la città

Abstract

La cultura architettonica italiana ha, nel corso della sua storia, fatto riferimento più volte alla prefigurazione di nuove possibili realtà urbane. Solo nel corso del Novecento il progetto italiano imprime segni indelebili relativi a prefigurazioni utopiche, proposte concrete, in alcuni casi realizzazioni, assunte spesso come riferimento da più versanti dell’attuale modello urbano globale. A partire dalle prefigurazioni immaginifiche di Antonio Sant’Elia nel 1914, si susseguono, sul suolo italiano, tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, le testimonianze di un impegno costante su questi temi. Sabaudia, Ivrea, Aprilia, Courmayer, i quartieri dell’Eur a Roma e Milano Verde, sono solo alcune delle tappe di un percorso condotto alla scala del progetto fondativo urbano in grado di testimoniare l’impegno della generazione dei maestri del Novecento verso la costruzione di un modello positivo ed esportabile. Ipotesi che testimoniano una identità precisa, mutuante in modo del tutto personale gli stimoli provenienti dalle culture internazionali. Nella seconda metà del Novecento il dibattito seguito alle proposte per il concorso per le Barene di San Giuliano a Mestre, le accelerazioni immaginifiche degli anni Sessanta e Settanta, la stagione della Grande Dimensione, i progetti per i grandi quartieri residenziali fino alla interpretazione delle istanze europee della città giardino anglosassone nel piano per la valle del Belice, hanno condotto nuovamente la storia del progetto urbano italiano al centro del dibattito internazionale. Il secolo si chiude con la prefigurazione della città uguale proposta da Franco Purini alla Biennale di Venezia del 2000, con la formulazione di un modello in linea con le istanze promosse dalla cultura della comunicazione come dato ineluttabile del nostro tempo. Una nuova, conclusa, prefigurazione urbana è ribadita dallo stesso progettista, in una diversa formalizzazione scalare, nell’impianto di VE.MA a sei anni di distanza, in occasione della X Biennale di Venezia del 2006. Alla luce di una parziale, non esaustiva, del tutto incompleta, casistica di occasioni è possibile cogliere nella cultura architettonica italiana le tracce di un preciso codice genetico atto alla predisposizione e alla interpretazione dei canoni urbani di un luogo per la coniazione di una possibile teoria della realtà urbana. Le testimonianze proposte dalla esposizione L’Architettura Italiana per la Città Cinese segnano una ulteriore conferma dell’impegno italiano alla codificazione di un modello esportabile, contrassegnato da una precisa matrice identitaria in grado di rileggere l’organismo urbano come ambito sensibile e complesso, luogo naturale di compresenza degli opposti, oggetto di studio e prolungata ricerca per la coniazione di una risposta chiara al pensiero debole della surmodernità. Al decadimento degli assunti modernisti prefiguranti nella zonizzazione l’interpretazione del modello di produzione della fabbrica il progetto italiano sembra ribadire una città incentrata sul controllo dell’ordine e della misura come antidoto alla proliferazione incontrollata della città generica. Nel sottolineare la necessità di trasformare lo spazio geografico in luogo, essa introietta le istanze globalizzanti come occasione per il conferimento di qualità allo spazio pubblico. Adotta il principio della separazione come paradigma per la codificazione di una forma assertiva e riconoscibile. Contrappone alla schiuma liquida urbana della megalopoli indistinta, la massima densità alternata alla rarefazione. Accelera la percezione prospettica alternando compressioni a dilatazioni improvvise dell’invaso spaziale. In linea con il titolo del testo di Dina Nencini, posto a chiusura del catalogo della mostra esposta a Shanghai e a Roma, il modello di città proposto nelle visioni dei progettisti invitati dall’Accademia di San Luca sembra ribadire la presenza di una città prima delle citt