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FRANCESCO LO PICCOLO

Nuovi confini, senza limiti: giochi di parole per le discipline urbane?

Abstract

Il contributo affronta in chiave critica il tema dei “nuovi confini urbani” in un’epoca priva di limiti spaziali. I riferimenti alla base delle riflessioni si riconducono all’articolata linea di ricerca che problematizza le ricadute spaziali dei fenomeni socio-economici di ristrutturazione della città post-fordista, esito dei processi di globalizzazione, urbanizzazione planetaria e migrazioni internazionali. Tali fenomeni configurano nuove geografie multi-culturali e generano un «mosaico sociale ristrutturato» che è al tempo stesso, rispetto alla scala globale, il risultato dei fenomeni di de-territorializzazione e ri-territorializzazione del capitale, del lavoro e della cultura («cosmopolis») e, rispetto alla scala locale, l’esito di complessi fenomeni di ibridazione e di polarizzazione sociale dello spazio («exopoli»), con ricadute sempre più evidenti sulle città e sui territori («città frattale»). Le trasformazioni socio-spaziali che identificano l’attuale transizione post-metropolitana generano inedite geometrie sociali «de-strutturate» e «disperse», che smentiscono i tradizionali modelli di analisi socio-spaziale e, pertanto, richiedono nuove categorie interpretative per gli strumenti di governo e pianificazione. Al tempo stesso, e paradossalmente, la pervasività della dimensione urbana, e il ruolo che ricopre per una vasta gamma di istituzioni, di organizzazioni, di soggetti e di gruppi, ne smaterializza e confonde ipertroficamente contorni e confini, diventati «confusi in modo inimmaginabile» (Brenner, 2017). La proliferazione dei confini, il loro prismatico scomporsi e ricomporsi, costituisce «l’altro lato della globalizzazione», sia al livello micro degli spazi urbani «quotidiani», sia al livello macro dei flussi globali intercontinentali (Mezzadra, 2004). Sono confini convenzionali e geografici, astratti e reali, che definiscono (e limitano) spazi e fenomeni sociali: confini che mutano frequentemente nello spazio e nel tempo, includendo ed escludendo – di volta in volta – individui e luoghi, per scelta o per necessità. Questo comporta una progressiva riduzione, sostituzione o ri-delimitazione dello spazio pubblico, attraverso forme di privatizzazione, ‘fortificazione’ e commercializzazione; i soggetti più deboli e marginali sono i primi ad essere colpiti da tutto ciò, anche in conseguenza della crisi dei sistemi di welfare state, oggi ancor più indeboliti dalla recessione economica e dalla conseguente necessità degli Stati di ridurre il loro debito pubblico. Ciò avviene in contesti sempre più conflittuali, in cui la paura e l’avversione dell’«altro» tendono ad essere la caratteristica dominante (Bauman, 2014). Questa dimensione dell’avversione e della paura è sempre più tratto ricorrente nell’esercizio delle politiche pubbliche e delle pratiche di pianificazione esercitate in «città della differenza», e riflette una più generale apprensione collettiva, estremamente diffusa e articolata nelle forme che vanno dall’ansia e paura individuale alla manipolazione mediatica ed alla strumentalizzazione politica. La «paura dell’altro» si traduce, in ambito tecnico-disciplinare, o in forme dirette di segregazione/controllo dello spazio (le città fortezza, lo spazio blindato o disagevole, il «rinnovo urbano» come versione aggiornata e politicamente corretta degli interventi di trasformazione igienico-sanitari ottocenteschi) o, in forme meno dirette, attraverso una apparentemente neutrale applicazione di tecniche e pratiche urbanistiche tradizionali e generiche. Nulla di nuovo, per certi versi: la letteratura sullo sviluppo urbano moderno e postmoderno ha ampiamente affrontato questo aspetto, da Michel Foucault a Henri Lefebvre, a partire dal tema della città come meccanismo di esclusione spaziale, sorveglianza e controllo sociale. Ciò che cambia è la rapida moltiplicazione e sovrapposizione di tali fenomeni, a scale e domini