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ETTORE SESSA

Architettura e forma urbana nella ricostruzione del Belice

Abstract

Nella notte fra il 14 e il 15 gennaio del 1968 per gli abitanti dei quattordici territori comunali della Valle del Belice maggiormente flagellati dal sisma prendeva il via un incubo senza fine; oltre all’ecatombe e ai danni materiali il terremoto (che in un’area di poco meno di 100.000 ettari circostanti l’epicentro, non lontano dalla vecchia Gibellina, aveva causato 351 morti, 582 feriti, e quasi 100.000 senza tetto) nei dieci anni successivi avrebbe generato azioni pubbliche e private cui è innegabile l’innesco di quel diffuso processo di declassamento etico-sociale che è ancor oggi sinonimo dell’intera vicenda della ricostruzione del Belice. Dei quattordici comuni riconosciuti come direttamente interessati dai più impegnativi provvedimenti di ricostruzione (e quindi destinatari dell’85% dei fondi stanziati per la ricostruzione nelle tre province) furono solamente Gibellina, Montevago, Poggioreale e Salaparuta ad essere classificati come soggetti a trasferimento totale, presentando una percentuale di danneggiamento, fra distruzioni e guasti onerosi, del patrimonio edilizio quasi totale; diversamente Calatafimi, Camporeale, Contessa Entellina, Menfi, Partanna, Salemi, Sambuca, Santa Margherita, Santa Ninfa e Vita furono interessati da programmi di trasferimento parziale . Estensore del Piano Territoriale di Coordinamento n. 8 della Sicilia Occidentale (con previsione di attuazione nell’arco di un ventennio, dal 1971 al 1991) è l’oramai onnipresente, su tutto il territorio nazionale, Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale (I.S.E.S.), cui solo più tardi si sovrapporrà l’attività di un ufficio speciale locale dei LL.PP. (l’Ispettorato Generale per le Zone Terremotate con sede a Palermo). La dimensione iperbolica delle previste e in gran parte realizzate infrastrutture viarie urbane e suburbane quasi sempre sovradimensionate (con viadotti esorbitanti e laconici percorsi pedonali differenziati, da sempre disertati), le megalomani progettazioni e talvolta persino edificazioni di improbabili sedi istituzionali e di culto, l’ossessivo anonimato e convenzionalità manualistica della decontestualizzata edilizia residenziale sarebbero dovuti essere segnali fin troppo rivelatori di un ‘grande disegno’, verosimilmente unitario e tuttavia poco discernibile ma, in ogni caso, assai poco condivisibile. Il ventaglio di soluzioni per gli impianti urbani elaborati per i piani di trasferimento pur perpetuando in chiave riduttiva, e fuori tempo massimo, impalcati progettuali International Style ne trasfigura considerevolmente l’abaco di ordinamenti. A fronte della relativa rapidità dei cantieri per l’edilizia scolastica, grazie anche alla misura perseguita coralmente dai progettisti la vicenda relativa ai programmi di costruzione di chiese, di sedi municipali e di edifici e spazi d’uso per la collettività accusa ben altri esiti e complessità. Ma per le comunità della Valle del Belice è rimasto ugualmente irrisolto il principale nodo della questione: nel loro caso, infatti, il “sogno della ragione” ha condotto amministratori e progettisti della ricostruzione verso la deriva della riedificazione convulsa e non della rinascita sociale e culturale.