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ETTORE SESSA

L'iperbolico nelle esposizioni dell'Oltremare fra Belle époque e Années Folles: metafore celebrative del secondo Iperialismo fra paradosso e immaginario

Abstract

Fra il 1870 e lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 l’ordine mondiale sembrava incentrato sugli accadimenti maturati in seno alle nazioni protagoniste della cosiddetta «civiltà industriale». È un nuovo scenario economico e tecnologico della civiltà occidentale che riconosce nelle grandi esposizioni internazionali e nazionali, ma anche in quelle regionali e coloniali, le sedi più idonee per azioni di propaganda commerciale e politica, oltre che per sperimentazioni di nuovi prodotti, di nuovi modelli comportamentali e, infine, di nuove tecnologie e forme architettoniche. L’Esposizione di Parigi del 1931 al parco del Bois de Vincennes l’ultima grande esposizione coloniale; sarà seguita da poche altre di questa categoria, tuttavia assolutamente non comparabili con essa, come quella di Oporto del 1934, di Dresda del 1939 e, addirittura, nel 1948 della Foire Coloniale di Bruxelles, mentre un discorso a parte, anche per le particolari logiche propagandistiche e il tipo di ordinamento, va fatto per la Mostra d’Oltremare di Napoli del 1940. Mai nelle esposizioni coloniali precedenti a quella di Parigi erano stati perseguiti una visione d’insieme e un programma di tale portata. Oltre ad assicurarsi l’adesione di nazioni come Argentina, Brasile, Canada, Haiti, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Persia, e altre, presenti con stands nel padiglione Cité Internationale des Informations, il comitato aveva destinato gran parte dell’impianto a specifiche esposizioni coloniali di nazioni come Belgio, Danimarca, Italia, Olanda, Portogallo e Stati Uniti dotate di domini d’oltremare. I relativi padiglioni disposti a sud e a nord della parte orientale del Lac Daumesnil completavano il grandioso “villaggio d’oltremare” dei possedimenti francesi; un’insieme di padiglioni bilanciato sull’asse dell’Avenue des Colonies Françaises che, concluso dalla torre delle Forces d’Outre-Mer, si estendeva dalla Porte de Reuilly fino al confine meridionale. L’illusoria idea parigina di una metafora metropolitana coloniale proposta al Bois de Vincennes era, in realtà, un paradosso seducente e, ovviamente, pericoloso; i cittadini della Douce France con essa si sarebbero dovuti illudere di un mondo consenziente di dominati; questi ultimi, di contro, avrebbero dovuto apprezzare la loro condizione ‘privilegiata’ rispetto a quella dei sudditi degli altri sistemi di possedimenti d’oltrematre. Da lì a trent’anni, con in mezzo il secondo conflitto mondiale (che vedrà ben altro coinvolgimento delle popolazioni dei domini europei e americani rispetto alla guerra 1914-1918), tutti gli imperi coloniali svaniranno, ma senza l’aura fiabesca materializzatasi nell’ultima crociata propagandistica del New Imperialism, lasciando rare e sperdute enclaves di possedimenti e tante pesanti eredità di instabilità economica, sociale e istituzionale, se non di autentiche tragedie umanitarie. Ma il propagandistico messaggio di pacificazione mondiale, sotto controllo occidentale, di cui si faceva interprete questa Esposizione Coloniale era, oramai, fuori tempo massimo.