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ETTORE SESSA

LA PRESENZA DEGLI ARCHITETTI SICILIANI A ROMA, CAPITALE DEL REGNO D'ITALIA

Abstract

Il fenomeno dei trasferimenti, più o meno duraturi, a Roma di un limitato ma qualificato novero di architetti siciliani, che nell’Età Moderna solitamente vi consumavano la consuetudine dell’apprendistato presso accademie ed esponenti di prestigio dell’Urbe (con solo pochi ma significativi trapianti), dopo che la città nel 1871 viene proclamata capitale del Regno d’Italia rientra in una diversa logica degli scenari professionali, tipica del periodo Positivista. Tale fenomeno va, dunque, riferito al formidabile, quanto impervio e contraddittorio, processo di adeguamento al rango di moderna capitale, secondo i coevi parametri europei; le grandi trasformazioni, della forma urbana e dell’assetto istituzionale, alle quali è ricondotta la “Città Eterna” sono un campo privilegiato per nuove possibilità professionali e di carriera. È sulla scorta dell’esempio più eclatante di questi trapianti professionali e accademici, cioè quello delle due fortunate stagioni romane di Ernesto Basile, che si configura un fenomeno di ondate di trasferimenti, più o meno duraturi, anche durante il Ventennio; vi parteciperanno, oltre ad architetti ed ingegneri, anche artisti e, soprattutto, imprese edilizie di un certo livello. Una tendenza, però, che avrà una variante del tutto particolare in relazione all’istituzione nel 1919 della prima Scuola Superiore di Architettura d’Italia (poi Facoltà di Architettura); la sua frequentazione da parte di un ristretto ma incisivo gruppo di giovani siciliani avrebbe delineato un filone particolare nell’ambito di questi trapianti nella capitale e, al tempo stesso, avrebbe avuto ricadute rilevanti nelle vicende della cultura del progetto nella Sicilia degli anni Trenta.