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FABIO RAPISARDA

Quando le cose vanno bene: analisi "terminabile" o "interminabile"? Le interruzioni e le conclusioni in psicoanalisi

Abstract

I criteri per considerare quando può essere adeguato concludere un percorso analitico, è un argomento abbastanza dibattuto in letteratura ed è stato affrontato inizialmente da Freud (1937) in uno dei suoi ultimi lavori che è “Analisi terminabile o interminabile”. In tale lavoro, secondo il fondatore della psicoanalisi, l’analisi poteva ritenersi conclusa sul piano pratico quando “paziente ed analista smettono di incontrarsi in occasione delle sedute analitiche. E lo faranno quando si siano all’incirca realizzate due condizioni: la prima che il paziente non soffra più dei suoi sintomi e abbia superato sia le sue angosce, sia le sue inibizioni; la seconda che l’analista giudichi sia stato reso cosciente al malato tanto materiale rimosso e siano state chiarite tanto cose inspiegabili e debellate tante resistenze interne, che non c’è da temere il rinnovarsi dei processi patologici in questione. Quando non si è riusciti a raggiungere questa meta a causa di difficoltà esterne, è meglio parlare di analisi incompleta piuttosto che di analisi non finita” (Freud, 1937; pp. 502, 503). A tale iniziale concetto, Laplanche (1987), ha proposto di distinguere la fine dell’analisi in limitata, infinita e terminata.