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VITO MATRANGA

IL MUTAMENTO LESSICALE IN CONTESTO SICULO-ALBANESE. UN APPROCCIO SETTORIALE

Abstract

È ovvio considerare che, in ambito italoromanzo, il lessico di una varietà locale sia conservato maggiormente nei settori delle attività tradizionali, specialmente in quelle rurali, affidato a parlanti meno ricettivi agli stimoli esterni e a una maggiore stabilità delle tecniche lavorative. Altrettanto scontato è considerare, di conseguenza, che l’innovazione linguistica proceda più rapidamente in quelle sfere della vita comunitaria in cui l’interazione verbale è maggiormente dinamica e più tipicamente “urbana”. Anche nell’ambito delle varietà arbëreshe, caratterizzate propriamente dagli esiti del contatto con le varietà romanze, e particolarmente dai numerosi prestiti lessicali, si sarebbe indotti a pensare che le forme originarie albanesi si conservino meglio proprio nei settori legati alle attività produttive tradizionali rappresentate dalla cultura agro-pastorale. Tuttavia, se con «conservazione» intendiamo il mantenimento di forme originarie albanesi e con «innovazione» la sostituzione di queste con le corrispondenti romanze, sia la quantità che la qualità dei prestiti lessicali ci porta ad ammettere che il lessico settoriale legato alle attività agro-pastorali (e particolarmente a quello pastorale) si presenta come maggiormente innovativo rispetto al lessico “comune”, condiviso dall’intera comunità linguistica. Ciò emerge dall’analisi di un corpus di 831 lessemi (al netto delle varianti fonetiche, dei derivati e degli alterati) relativi all’ambito agro-pastorale, raccolti a Piana degli Albanesi. Perché, diversamente da ciò che si può riscontare nelle realtà italoromanze, in una comunità arbëreshe il lessico relativo a settori conservativi si presenta come fortemente innovativo? La risposta non è semplice. Il contatto con l’elemento siciliano, fin dall’inizio degli insediamenti albanesi, sembra essere avvenuto più intensamente proprio nelle campagne, agevolato anche dagli spostamenti dei coloni in feudi spesso lontani dal centro abitato, e nell’ambito pastorale un ruolo importante, in questo senso, può essere attribuito alla transumanza. Si potrebbe supporre, tuttavia, che, almeno per quanto riguarda la pastorizia, una situazione così “innovativa” non sia stata raggiunta in seguito a un graduale e “fisiologico” rinnovamento lessicale, dovuto alle note dinamiche del contatto linguistico, ma abbia a che fare con la storia del radicamento degli Albanesi nella realtà produttiva dell’Isola. Non si comprende, infatti, come mai i soli contatti nelle campagne tra gruppi socialmente paritari, possano aver provocato la sostituzione di una lingua-cultura (albanese) “subalterna” con un’altra (siciliana) dello stesso livello. La sostanziale omogeneità delle tecniche agropastorali del ‘500 nel bacino del Mediterraneo ci induce a pensare che sia da scartare un’eventuale ipotesi di conflittualità in quest’ambito, che abbia provocato l’abbandono totale di una pratica originaria – e con essa della relativa terminologia – per acquisirne in toto una nuova e più appropriata, inconciliabile con la precedente. Ipotesi non da scartare (ma eventualmente da verificare con mirate, indagini su eventuali fonti documentarie) è invece quella relativa alla composizione sociale dei profughi albanesi, forse non pienamente padroni delle tecniche soprattutto pastorali, che probabilmente hanno dovuto apprendere ex novo, insieme alla relativa terminologia, una volta posti nelle condizioni di affrontare le attività produttive.