Salta al contenuto principale
Passa alla visualizzazione normale.

STEFANO MONTES

Per una etnografia dialogica e improvvisata

Abstract

Un concerto di musica diventa per l’autore l’occasione pratica per una riflessione teorica sul modo di vedere l’etnografia e di concepire alcuni concetti d’ordine antropologico che dovrebbero essere collegati tra loro nelle diverse ricerche: universo sonoro, dimensione sensoriale, realtà, simulazione, dialogo, autocomunicazione, improvvisazione, vita. Il punto di partenza è la conoscenza mediata dai suoni. In quanto traduzione di un fatto sociale totale, una etnografia dovrebbe includere il modo sonico di conoscere di individui e culture sia nel quotidiano sia nel campo più lontano ed esotico. Riconoscerlo significa recuperare, in chiave dialogica, le più vaste interconnessioni tra le varie diverse sfere sensoriali (uditive, tattile, etc.), ricomponendone la sintassi e l’influenza reciproca sull’atto diversificato di cognizione. Il presupposto del saggio è dunque che questo diffuso principio dialogico di base dovrebbe valere sia per il permeante universo sonoro sia per altre dimensioni cognitive e sensoriali in incessante comunicazione tra loro persino senza il diretto controllo dell’individuo. Il parlare, nella sua interezza, è un’attività (Wittgenstein) che implica forme di comunicazione di tipo essenzialmente dialogico non ristrette alla sola interazione tra individui in carne e ossa, ma, anche, ad altre forme di interazione, incluso quelle legate all’autocomunicazione (Lotman). La realtà stessa dovrebbe essere intesa nel suo rapporto con i diversi gradi di comunicazione e di simulazione che la tecnologia ci consente; sempre più, i sensi dovrebbero essere compresi come forme di estensione mediata dalla tecnologia: realtà e simulazione sono di fatto, oggigiorno, strettamente intrecciate e ridefiniscono, dialogicamente, i nostri modi di essere e concepire l’una e l’altra. La conseguenza è che, poiché viviamo in un flusso di emittenze e ricevenze, incrociate e sovrapposte tecnologicamente, è necessario in definitiva ripensare la nozione di dialogo e di includervi, tra le altre cose, lo scambio di voci e suoni tra interlocutori in carne e ossa, ma, anche, tra enti più astratti e immateriali, nonché tra le diverse istanze costitutive la coscienza di uno stesso individuo. Per mostrare le interconnessioni tra i vari concetti si ricorre, nel saggio, all’esempio di Steven Feld, Marc Augé e Paul Stoller. Gran parte dell’opera di Augé può essere considerata un lungo e proficuo ‘esercizio di riflessività’ di tipo dialogico applicato alle categorie dell’antropologia e al soggetto stesso che le pratica. Similmente, un principio dialogico vale pure per Steven Feld, il quale lo applica nella sua ricerca sul campo coinvolgendo direttamente i suoi amici-interlocutori e se stesso in quanto antropologo e autore di una etnografia sui kaluli del Bosavi di Papua Nuova Guinea. Un altro esempio importante preso in conto nel saggio è quello di Paul Stoller secondo cui l’apprendistato della stregoneria, più che una condizione psicologica originaria e intaccabile, significa porsi sulla frontiera tra due mondi diversi ma in continua e possibile comunicazione. Viviamo, spesso senza rendercene conto, in un universo musicale e dialogico in cui individui – ma anche oggetti materiali e simbolici, enti più astratti e collettivi – si scambiamo opinioni e punti di vista, suoni e messaggi, interagiscono per botte e risposte, storie e contro storie scritte e orali, visive e gestuali che hanno un qualche ritmo e cadenza di base. L’etnografia dovrebbe allora, in definitiva, cercare di seguire il ritmo libero, tutto sommato musicale, delle improvvisazioni e dei piani d’azione che si presentano nella vita di un individuo. A questo fine, si dovrebbe in sostanza spostare l’accento dal solo concetto di cultura a quello di vita per esplorarne le reciproche interrelazioni. Vivere significa prodursi nell’alternanza di obiettivi che programmiamo e direzioni che prendiamo su