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ROSA MARCHESE

Parola e silenzio nell'ultimo Cicerone: il caso della Philippica I

Abstract

Il silenzio e la parola sono, più che temi posti ad oggetto della riflessione dell’ultimo Cicerone, poli di una dialettica identitaria entro la quale egli prova a far rientrare il proprio profilo esistenziale. Tornato a Roma dopo Farsàlo, dopo esser rimasto a lungo in attesa del benestare al suo rientro da parte di Cesare, nell’aprile del 46 Cicerone rompe il silenzio completando in breve tempo il Brutus. Si tratta di un’opera dal profilo letterario ibrido cui egli affida il compito di testimoniare il suo ritorno entro una dinamica di reciprocità amicale, letteraria e sociale attraverso una ricostruzione dell’oratoria romana, ad uso di una compagine politica di cui, negli eventi convulsi della guerra d’Africa, non sa neppure intravedere i contorni, ma della quale avverte il bisogno di poter ancora contare su modelli praticabili di azione e di intervento nella realtà, utili a consolidare il tessuto sociale dissolto dalla lotta politica inter cives. A guerra conclusa, nel settembre di quello stesso anno, Cicerone rientra con forte determinazione nei panni dell’oratore per pronunciare la prima gratiarum actio volta a celebrare un atto di clementia, e cioè il discorso pro Marcello, nel quale trovano posto, proprio a partire dal riconoscimento che è finito il tempo troppo prolungato del silentium, strategie di ristrutturazione delle dinamiche interne al corpo sociale ferito dalla guerra di cui l’Arpinate si fa mediatore attraverso la continuità della propria vox. In verità, le cosiddette “orazioni cesariane” costringono Cicerone a una ridefinizione profonda di quella stessa voce, chiamata a compiti e a funzioni che si configurano sempre più come esterni a ogni cornice tradizionalmente riconoscibile come istituzionale. L’ultima occasione per indossare i panni che Cicerone sente come più congeniali alla propria storia è rappresentata dalla contrapposizione con i disegni di Marco Antonio: la Philippica I infatti ruota intorno alla soddisfazione di poter e dover esercitare la propria potestas dicendi come prerogativa in grado di rendere testimonianza a se stesso e alla propria voluntas nei confronti di uno stato assediato e privo di difensori, nella piena consapevolezza che prendere la parola in pubblico non significa più compiere un atto performativo in grado di “fare qualcosa” e intervenire nella realtà, ma suggellare con la propria testimonianza un cambiamento irreversibile.