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PATRIZIA LASPIA

Discorso interiore/discorso esteriore. In dialogo con Giovanni Manetti

Abstract

A partire da un contributo di Giovanni Manetti (2016) si ripercorre la contrapposizione fra linguaggio esteriore e linguaggio interiore nella tradizione filosofica greca. Si delineano due posizioni di fondo: la posizione discontinuista, rappresentata dagli Stoici, nega etica e razionalità agli animali, perché privi di 'linguaggio interiore' (logos endiathetos), ossia di ragione (logos), anche se capaci di imitare il linguaggio proferito (logos prophorikòs). All'estremo opposto, la posizione continuista, rappresentata dagli Accademici e dagli Scettici, argomenta a favore di una continuità cognitiva fra uomo e animale. Scopo dell'articolo è mostrare che la posizione discontinuista non si origina da Platone e Aristotele, da indagare alla luce della tradizione precedente. Nell'epos omerico il linguaggio è visto insieme come uno (legein, raccogliere) e molteplice. La molteplicità dei contenuti enunciativi diviene manifesta solo nel linguaggio vocale. Una sola voce possente (opa megale) si traduce infatti in una molteplicità di detti (epea) 'numerosi come fiocchi di neve in inverno'. Questo è il retroterra da cui si origina la fase aurorale della riflessione greca sul linguaggio. Parmenide considera la molteplicità sensibile 'nome' (onoma), ossia apparenza, ‘linguaggio esteriore’. Verità è solo la coincidenza fra 'dire' (legein) e 'comprendere' (noein) che si manifesta nell'unità assoluta dell'eon, l' 'è' della predicazione. Per Platone, il logos vocale é fatto di nomi e verbi che sono eidola, immagini deformate degli oggetti rappresentati. A un livello esteriore, vocale, i contenuti corrispondenti a nomi e verbi sono rappresentati come distinti; ma a un livello interiore – interiore alla proposizione, prima che al singolo parlante – i contenuti enunciativi si fondono in assoluta unità. Il logos infatti non nomina (onomazei) soltanto, ma compie o delimita qualcosa (ti perainei): e a quest'intreccio si dà il nome di logos (Soph. 262 d). Su questa linea si colloca la distinzione aristotelica fra linguaggio esteriore ed interiore (Anal. II 76 b 24-27) e lo stesso incipit del De interpretatione. La nozione di 'linguaggio interiore' non tematizza dunque, in Aristotele, l'interiorità dell'uomo, o la specificità della mente umana, ma l'interiorità del linguaggio; il grado zero della sua articolazione.