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CHIARA GARILLI

Contratto di rete e diritto antitrust

Abstract

La disciplina del contratto di rete (“c.d.r.”) – introdotta nel nostro ordinamento giuridico dalla l. 9 aprile 2009, n. 33 (di conversione del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, c.d. Decreto incentivi), e poi a più riprese modificata in modo sostanziale – ha sin dalla sua emanazione suscitato molteplici dubbi interpretativi ed incisive critiche, per lo più determinati da problemi d’inquadramento sistematico e dalla lacunosità del dettato normativo. La dottrina più incline a manifestare il proprio favore verso il nuovo istituto contrattuale, comunque, ne ha sovente evidenziato l’unicità nel panorama europeo, tale da conferire al legislatore italiano (una volta tanto) il ruolo di precursore nell’elaborazione di modelli legislativi innovativi ipoteticamente esportabili al di là dei confini nazionali. La rete di imprese, del resto, costituisce un modello economico – ancor prima che giuridico – coerente con gli attuali orientamenti europei in materia di politica industriale, volti a rilanciare la competitività delle piccole e medie imprese sulla scia del noto slogan “think small first”. Alla luce di tali considerazioni, la disciplina italiana del c.d.r. appare in linea con le finalità d’incentivazione delle citate forme aggregative, soprattutto in ragione della predisposizione di un’articolata disciplina a latere della neo-tipizzata rete contrattuale, consistente in una nutrita serie di agevolazioni in materia fiscale, creditizia e amministrativa. Il presupposto economico-giuridico posto a fondamento del favor legislativo per le reti di imprese è, dunque, presumibilmente da rintracciare nella funzione pro-concorrenziale di queste ultime per i soggetti economici coinvolti ed il mercato complessivamente inteso. Già dalla definizione legislativa, allora, sembra emergere l’intrinseco legame del c.d.r. con il diritto della concorrenza: in prima battuta, infatti, il diritto antitrust fornisce all’interprete gli strumenti ermeneutici per identificare la stessa nozione di c.d.r., escludendo dal novero delle aggregazioni suscettibili di tale qualificazione le reti “fittizie”, cioè caratterizzate – al di là del nomen iuris che le contraddistingue – da un oggetto restrittivo della concorrenza. Ciò dovrebbe consentire, tra l’altro, alle competenti autorità amministrative – e/o agli eventuali organismi di asseverazione, ove presenti – di escludere dall’accesso alle relative agevolazioni forme cooperative anticoncorrenziali non ascrivibili al tipo contrattuale disciplinato dalla citata l. n. 33/2009. In un’ottica strettamente complementare a quella appena analizzata, l’applicazione dell’art. 101 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”) – nonché, in una prospettiva nazionale, dell’art. 2 della l. 10 ottobre 1990, n. 287 (“l. ant.”) – consente di determinare lo spartiacque tra reti lecite e illecite, agendo non soltanto nella prospettiva tipicamente sanzionatoria e deterrente del c.d. public enforcement, ma anche in quella privatistica della nullità della rete restrittiva della concorrenza (art. 101.2 TFUE e art. 33 l. ant.). Inoltre, l’estrema flessibilità del modello contrattuale consente alle parti di graduare variamente l’intensità della loro reciproca integrazione, fino alla possibilità di configurare delle vere e proprie imprese comuni, caratterizzate dalla compartecipazione dei soggetti economici coinvolti. Ebbene, nelle ipotesi in cui l’assetto e la governance della rete presentino caratteristiche di aggregazione talmente forti da configurare una nuova e distinta impresa, in grado di operare autonomamente nel mercato sotto il controllo congiunto dei retisti (o di taluni di essi), le autorità di concorrenza europee e nazionali potrebbero essere chiamate a svolgere una valutazione ex ante sull’impatto concorrenziale della stessa, quantomeno tutte le volte in cui il fatturato dei soggetti coinvolti ecceda i limiti previsti