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GIUSEPPE DI BENEDETTO

Palermo tra innesti e piante originarie

Abstract

Se vi è qualcosa di profondamente e visceralmente connaturato alla stessa dimensione esistenziale della città di Palermo, sin dalle sue molteplici e stratificate origini fenicio-puniche, questo è certamente il concetto di “innesto”. Ed in analogia con l’innesto agrario, cioè con la pratica del far concrescere in una pianta esistente una parte di un altro vegetale, al fine di rafforzare il primo soggetto ma modificandolo verso un genere diverso da quello iniziale, l’intera storia millenaria della città potrà essere riguardata come il frutto di continue, cicliche introduzioni di modelli architettonici e urbani esogeni, declinati rispetto alle contingenze culturali autoctone dei diversi esempi fondativi e rifondativi dell’urbe. L’intero corpo fisico di Palermo può, pertanto, essere considerato come il risultato di diverse esperienze di inserzioni e di accostamenti operati, in ogni caso, con la consapevolezza che ogni nuova scrittura o riscrittura architettonica è stata nel contempo lettura interpretativa dell’esistente. Non a caso nei progetti esemplificativi della strategia dell’innesto - come le secentesche quinte architettoniche del Teatro del Sole (i quattro Canti di città) di Giulio Lasso, il Gymnasium dell’Orto Botanico di Léon Dufourny, la Casina dei Quattro Pizzi all’Arenella di Carlo Giachery, i giardini all’Inglese, le tipologie del Crescent e dello Square sperimentate da Giovan Battista Filippo Basile nel Cassaro e a piazza Marina e quella del boulevard utilizzata dallo stesso Giachery per la Real Strada Favorita (via Libertà), il Palazzo delle Poste di Angiolo Mazzoni, la sede Enel di Giuseppe e Alberto Samonà, e Giuseppina Marcialis, o lo ZEN del Gruppo Gregotti, Amoroso, Bisogni, Matsui e Purini - è riconoscibile la continuità di una intima dialettica tra autonomia ed eteronomia dei modelli architettonici e urbani utilizzati.