Salta al contenuto principale
Passa alla visualizzazione normale.

FABRIZIO D'AVENIA

Il “ciclo vitale” di un’élite cittadina: il patriziato di Messina in età moderna

Abstract

Una forte mobilità sociale – con i suoi processi di rimescolamento e rinnovamento – caratterizza la storia della Sicilia moderna, con alcune fasi di particolare accelerazione: nei decenni tra fine ’500 e inizio ’600, durante i quali come «mai forse nella storia dell’isola la nobiltà [feudale] si acquistò con tanta facilità» (Cancila); e in quelli a cavallo del 1700, “alba” di quei “gattopardi” (Gallo), che avrebbero dominato la scena politica negli anni difficili di dominazioni straniere brevi e precarie. Lo dimostrano, tra i tanti, due fenomeni che coinvolgono dalla base al vertice tutta la piramide sociale dell’isola: la vivacità del mercato dei titoli e degli onori (don, nobile, regio cavaliere, titoli feudali) e l’elevato numero di cadetti siciliani dell’Ordine di Malta (dai cavalieri di giustizia – nobili per 4/4 – ai cappellani d’obbedienza, ai quali venivano richiesti titoli di nobiltà assai più modesti). Conseguenza di questa “instabilità” sociale – non è ovviamente in discussione l’ordine codificato dall’Ancien régime, ma il destino dei singoli e delle loro famiglie – è la precarietà delle posizioni di prestigio sociale ed economico, che devono continuamente far fronte alla pressione di parvenues e “nuovi baroni” (Cancila), alle crisi finanziarie e patrimoniali (con un costante ricorso all’indebitamento), alla fragilità biologica. In questo contesto, la costruzione, il consolidamento e il mantenimento del prestigio sociale ed economico di una famiglia mobilita ininterrottamente tutte le “risorse dell’onore” a sua disposizione, in una strategia necessaria per la sopravvivenza e non necessariamente, quindi, pianificata in anticipo. Tutto ciò è ancora più vero per le famiglie del patriziato di Messina – città dalle (frustrate) aspirazioni di capitale concorrente a Palermo (anche per il suo modello alternativo di reggimento comunale “repubblicano”) – che, a differenza dell’aristocrazia feudale palermitana, può contare relativamente sull’appoggio della corte viceregia. Queste “risorse dell’onore” possono essere così sintetizzate: • stretto legame di fedeltà alla Corona spagnola, soprattutto nella fase iniziale di ascesa della famiglia – attraverso l’accesso a cariche amministrative (centrali e periferiche) e militari – e nei periodi di crisi politica (come nel periodo delle rivolte del 1647-48 e durante la rivolta di Messina del 1674-78); • ricostruzione ex-post di “genealogie incredibili”, finalizzate non tanto a provare l’indimostrabile, quanto piuttosto a dimostrare di avere cognizione del proprio passato, condizione e requisito insieme di identità aristocratica; • accesso al mercato dei titoli, soprattutto feudali, e ingresso nei ranghi parlamentari; • alleanze matrimoniali finalizzate alla costruzione e all’accrescimento del patrimonio (legami con ricche famiglie, per esempio di origine genovese), al mantenimento dello stesso (ricorso all’endogamia), alla creazione di una “rete aristocratica gerosolimitana” tra famiglie accomunate da una massiccia presenza di cadetti nelle file dell’Ordine di Malta; • accesso a importanti cariche di governo dell’Ordine di Malta. Ma tutto questo può non bastare: spesso una crisi biologica (mancanza di eredi maschi) mette in brevissimo tempo in crisi un sistema di potere, prestigio e ricchezza, faticosamente costruito, a beneficio di altre famiglie emergenti o più fortunate dal punto di vista demografico. L'articolo si propone, attraverso le vicende di una delle famiglie più importanti del patriziato di Messina, i Di Giovanni, di ricostruire questo “ciclo vitale” – una parabola di ascesa e decadenza – di un’élite cittadina di età moderna, modello significativo di una mobilità sociale incessante e a volte impietosa.