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IVANO CAVALLINI

Folk and Popular as "National": The Invention of the Italian Unity through Poetry and Music

Abstract

La nascita delle moderne filologia, musicologia ed etnologia nel XIX sec. ha contribuito ad approfondire anche in Italia lo studio scientifico della poesia e della musica non cólte. I termini popolare e nazionale, tuttavia, erano passibili all’epoca delle interpretazioni più varie, in virtù del diverso approccio delle tre discipline alla materia. Gli storici della letteratura si occupavano infatti di poesia con scarsa sensibilità per la musica, i musicologi di musica antica senza alcuna preparazione letteraria, gli etnologi indagavano i fenomeni nel loro accadere e solo in qualche caso formulavano ipotesi sulla storicità delle tradizioni. La prima generazione di studiosi delle tre branche postulava inoltre l’unità linguistica del paese, come dimostra la teoria monogenetica del tetrastico da cui si è generato lo strambotto, secondo la quale i dialetti sarebbero varianti dello stesso nucleo sorto in Sicilia e migrato in Toscana, come accadde per la poesia colta secondo l’opinione di Carducci. Tesi duplicata da Nigra con l’origine celtica della canzone e sicula dello strambotto, fondata sul pregiudizio della diversa indole razziale delle genti del Nord e del Sud, che non nega però la comune origine latina dei due ceppi. L’identificazione del popolo creatore collocato in via esclusiva nel passato e le dialettiche di trasmissione dei canti hanno occupato il dibattito in relazione alla musica, guardata come il medium privilegiato per la veicolazione del testo popolare. I musicologi, dal canto loro, non hanno mai usato il concetto di classe e si sono limitati a descrivere come popolare una parte dell’antica polifonia profana. Il trend si è radicalizzato sul finire dell’Ottocento, a causa della reazione nazionalista che agì negativamente anche sulla filologia. Basti pensare ai “cantari leggendari” forzatamente assimilati all’epica romanza e germanica. In questo caso il popolo che canta è facilmente omologabile al concetto di nazione, cui si richiamavano in musica i vari Torchi, Parodi, Silva e Tommasini. Non stupisce quindi l’accoglimento della “filologia delle origini” da parte di Favara, il quale, come d’Annunzio, era affascinato dalla melodia primordiale e dagli archetipi del popolare. Laddove il popolare coincide con la musica e il dialetto, in cui si riconosce il perenne dionisiaco separato dall’apollineo al quale si piega la lingua. Le due categorie metastoriche hanno consentito così di superare l’impasse di un bilinguismo culturale che avrebbe reso inconciliabili lo studio del canto folklorico e la filosofia di Nietzsche, poiché lo studioso non attendeva alla ricerca in senso diacronico, ma alla registrazione nell’ hic et nunc di fenomeni che nei modi si ripetono sempre eguali nel tempo. Per cui la settorializzazione dei saperi, invece di aprire una fenditura nei processi di classificazione regolati su dinamiche di creazione-ricezione dal basso all’alto e viceversa, favorì l’occultamento del concetto di classe e delle relative stratificazioni culturali multiple.