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Marketing e fundraising

Steri

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Il soffitto delle meraviglie e i loggiati dei Chiaromonte

è uno dei luoghi simbolo di Palermo, un palazzo che custodisce sette secoli di arte e di cultura della Sicilia: dall’epoca della fondazione, nel Trecento, a opera della grande famiglia dei Chiaromonte, passando per la stagione dei re aragonesi e per quella oscura dell’Inquisizione spagnola, per arrivare agli anni Cinquanta del Novecento, quando l’edificio rinacque sotto il segno degli architetti Roberto Calandra e Carlo Scarpa. Oggi sede istituzionale dell’Università di Palermo, lo Steri (dal francese antico oster, dimora sontuosa) è un museo di se stesso in cui ogni passaggio della storia ha lasciato testimonianze preziose: il soffitto trecentesco della Sala Magna, esteso duecentoquindici metri quadrati e definito “un’enciclopedia medievale” per la ricchezza delle sue trentadue narrazioni; i loggiati; i graffiti dei prigionieri dell’Inquisizione già restaurati e inglobati nell’attuale Sala delle Armi; la Sala delle Capriate; la Vucciria di Renato Guttuso il dipinto-icona di Palermo che l’artista nel 1974 volle regalare all’Ateneo. Al posto della grande tela, in prestito temporaneo al Vittoriano per la grande retrospettiva nel centenario della nascita del maestro bagherese, una fotografia del dipinto di analoghe dimensioni.

Carcere dei penitenziati

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I graffiti dei prigionieri nelle prigioni restaurate

è il carcere segreto dell’Inquisizione, la prigione buia dove per due secoli, dai primi del Seicento al 1782, gli uomini inviati in Sicilia da Torquemada interrogarono e torturarono innocenti in nome di Dio. Una testimonianza unica al mondo che è insieme opera d’arte e atto d’accusa contro le ingiustizie del potere. Per gli uomini del Sant’Uffizio i carcerati erano eretici, bestemmiatori, fattucchiere, amici del demonio. In realtà molti erano artisti, intellettuali scomodi, nemici dell’ortodossia politica e religiosa. Oppure poveracci finiti negli ingranaggi di una gigantesca macchina di malagiustizia. Il carcere, interamente restaurato, apre eccezionalmente le porte mostrando le pareti interamente dipinte con disegni, racconti, preghiere. E raccontando le storie di chi dovette viverci per mesi o per anni. Come fra’ Diego La Matina, l’eroe di Leonardo Sciascia, il prigioniero che uccise l’inquisitore che lo interrogava.

Chiesa di Sant’Antonio Abate

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Il gioiello gotico con il volto di Cristo

è un piccolo gioiello gotico, nel cuore del complesso dello Steri, che si mostra per la prima volta a restauro concluso. La chiesa di Sant’Antonio Abate, un tempo collegata al palazzo da un ponte sospeso, fu eretta nel 1377 per volontà di Manfredi Chiaromonte e dedicata al santo egiziano, uno dei fondatori del monachesimo orientale, cui erano devoti i Crociati di ritorno dai luoghi sacri. I signori dello Steri e i pochi dignitari ammessi assistevano qui alle funzioni. I lavori hanno consentito di recuperare parti di pregevoli affreschi cinquecenteschi nell’abside e un volto di Cristo sulla parete sinistra, immagine straordinariamente somigliante a quella dipinta sulla sesta trave del soffitto della Sala Magna dello Steri, attribuita a un maestro napoletano di tradizione giottesca. Ritrovate anche tre tombe misteriose su cui sono in corso indagini per determinare epoca e identità dei defunti. L’ingresso con arco a sesto acuto sul prospetto principale è decorato con un fine rilievo marmoreo. Sull’architrave un medaglione con Sant’Antonio Abate fiancheggiato da due angeli, due stemmi chiaromontani e due serafini. Da secoli non è più luogo di culto.

Cappella dei Falegnami

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Un tripudio di stucchi, putti e festoni nell’oratorio dell’ex Convento

è un oratorio barocco custodito nel convento di San Giuseppe dei Teatini, oggi sede della facoltà di Giurisprudenza. La decorazione delle pareti fu affidata a Giuseppe Serpotta, fratello del più noto Giacomo, che vi lavorò nel 1701, forse in collaborazione con il nipote Procopio, facendone un tripudio di putti, festoni, medaglioni. In origine i Padri Teatini, che avevano realizzato il convento agli inizi del Seicento, assegnarono l’oratorio a due congregazioni, quella di Gesù, Giuseppe e Maria e quella dei Servi del Santissimo Sacramento e Immacolata Concezione.

Ma nel 1805, quando il complesso religioso fu adibito a sede della Regia Accademia degli Studi (antesignana della moderna Università) e la cappella della confraternita di San Giuseppe dei Falegnami sacrificata per far posto all’attuale portico su via Maqueda, furono proprio loro – i Falegnami – a subentrare nella titolarità dell’oratorio barocco, mentre le altre confraternite si trasferirono altrove. Il presbiterio è ottocentesco, così come l’altare, realizzato in marmo da Giosuè Durante su disegno dell’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia.

Museo di Zoologia Doderlein

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Quando alla foce dell’Oreto nuotavano storioni giganti

è un museo-gioiello che custodisce, come cristallizzato, l’ecosistema scomparso di un secolo e mezzo fa. Quando gli storioni erano di casa alla foce dell’Oreto, oggi tra i fiumi più inquinati d’Italia. E quando il “Mar di Sicilia” era un caleidoscopio di colori e di specie, popolato da anguille, gronchi, cernie, dentici di dimensioni paragonabili a quelle degli esemplari che si trovano oggi nei parchi marini. È il Museo di zoologia Pietro Doderlein, creato nel 1862 dal cattedratico dalmata, arrivato all’Università di Palermo per occupare la cattedra di Zoologia. 
Le collezioni ittiologiche, prevalentemente collocate nel piano inferiore, comprendono circa 1.200 esemplari di pesci preparati a secco o in liquido. Tra le rarità ittiche si annovera il lemargo (un piccolo squalo), il capolepre, il wahoo e il curioso pesce-istrice, tipico del Mar Rosso, che attesta con anticipo la tropicalizzazione delle nostre acque. I pesci erano conservati con uno speciale trattamento chimico che ne preservava le caratteristiche fisiche ed estetiche, con effetti di assoluto realismo. Un segreto che però rimase privilegio dei pochi allievi di Doderlein e non è stato più tramandato. Gli animali sembrano di cartapesta, e invece sono veri.
  

Museo Geologico Gemmellaro

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Gli uomini e gli elefanti preistorici benvenuti sulla macchina del tempo

Elefanti e leoni? Adesso abitano le giungle e le savane, ma tra cinquecentomila e centoventimila anni fa popolavano la Sicilia, insieme con orsi, iene, buoi, bisonti, lupi, ippopotami e cervi. Per crederci basta varcare la soglia del Museo geologico Gemmellaro e salire sulla macchina del tempo. Qui gli esemplari e le ricostruzioni degli elefanti preistorici sono soltanto una tappa di un magnifico viaggio lungo 250 milioni di anni e raccontato da 600 mila reperti suddivisi in collezioni paleontologiche, mineralogiche e stratigrafiche. 

Il museo nacque nel 1861, a opera di Gaetano Giorgio Gemmellaro, primo professore di Geologia e Mineralogia dell’Università di Palermo. Fu lui che in breve tempo lo trasformò in una delle istituzioni scientifiche più importanti d’Europa, raccogliendo fossili e rocce da molti Paesi. La visita, oggi, inizia con un’esposizione paleontologica dai più antichi fossili siciliani dell’era paleozoica (270 milioni di anni fa) fino ai più recenti fossili dell’era quaternaria. Nelle tre sale al piano superiore, gli elefanti di Sicilia, la collezione di cristalli di zolfo che risalgono a sei milioni di anni fa, e la sala dedicata all’uomo con il prezioso scheletro di Thea, la donna del Paleolitico dal cui teschio è stato ricostruito il volto.

Cripta delle Repentite

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Le tombe segrete delle prostitute diventate monache

è una cripta che custodisce i segreti di uno dei luoghi più curiosi e affascinanti della città antica: il convento cinquecentesco di Santa Maria la Grazia, meglio noto come convento delle Repentite, le ex prostitute convertite alla vita monastica e mantenute dalle cortigiane in servizio attraverso un’imposta pagata al Senato palermitano, una sorta di “porno-tax” ante litteram. Il tributo non era obbligatorio, ma doveva essere versato se le prostitute volevano vestirsi come le “donne oneste. Scoperta casualmente nel 2005 durante lavori di ristrutturazione, oggi la cripta rivela un altro tassello della sua storia: i cartigli segreti trovati dentro due ampolle di vetro nella tomba della Madre Badessa, decrittati dall’Istituto di patologia del libro. Parole sottratte all’oblio che ci raccontano della vita e della morte nella Palermo del Seicento. Nella cripta un magnifico altare seicentesco e le panche dove venivano appoggiati i corpi delle defunte secondo un'antica tradizione religiosa che – come nel convento dei Cappuccini - prevedeva il prosciugamento dei cadaveri prima della sepoltura.

Dotazione Basile

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L’architettura d’Italia nelle preziose tavole del Maestro

Raffigurano gli edifici antichi, medievali e moderni di tutta Italia che servivano al grande Giovan Battista Filippo Basile a illustrare ai suoi allievi la storia dell’architettura italiana. Sono 34 gigantesche tavole didattiche dell’Ottocento, realizzate dall’assistente Michelangelo Giarrizzo su disegni e schizzi del Maestro, che costituiscono per pregio e integrità un corpus unico in Italia. 

Collocate in origine sulle pareti dell’aula-laboratorio della vecchia Regia Scuola di applicazione per Ingegneri e Architetti in via Maqueda (successivamente facoltà di Ingegneria e infine di Architettura), tornano a vivere adesso in esposizione permanente al primo piano della facoltà di Architettura, in viale delle Scienze. Le 34 tavole didattiche, corredate da iconografie, alzati, sezioni, vedute prospettiche, particolari e schemi compositivi e costruttivi, furono realizzate da Giarrizzo con pigmento nero diluito su supporti in tela grezza, montate su telai in abete e rivestite con un preparato a base di materiale gessoso, colla e bianco di titanio.

Circolo Giuridico

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La biblioteca ottocentesca scrigno del diritto

E’ uno scrigno prezioso che racconta la volontà di promuovere la cultura delle scienze sociali e del diritto nella Palermo dell’Ottocento. Le scaffalature di legno, la scaletta a chiocciola interna, gli antichi volumi: nella biblioteca del Circolo giuridico, all’interno della facoltà di Giurisprudenza, tutto evoca l’atmosfera che si respirava nei primi anni della fondazione, avvenuta nel 1868 a opera di Luigi Sampolo, allora professore di Diritto civile. In quella sede costituì un’associazione di giureconsulti, si adoperò per creare una biblioteca giuridica e una sala di lettura.


Sembra ancora, in queste sale che ricordano un elegante circolo inglese, di sentire risuonare la voce dei primi soci. La biblioteca, che ancora adesso è una struttura vitale e aperta alle consultazioni, costituisce il nucleo originale della attuale biblioteca della facoltà di Giurisprudenza, con un patrimonio librario di circa 800 mila monografie e 800 testate di periodici.