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GIOVANNI MARRONE

Barthes e il racconto

Abstract

Barthes ha scritto parecchio sul racconto, e secondo un’opinione diffusa ne è uno dei principali studiosi e interpreti. Ma possiamo dire che fosse realmente interessato a esso? che ne abbia colto l’articolazione formale profonda e le valenze antropologiche? che percepisse l’interesse teorico, al di là del racconto propriamente detto, di quella sua conseguenza metodologica che è la narratività? Le risposte non sono così scontate come sembrerebbe . Da una parte, grazie anche ai suoi scritti, entro il paradigma delle scienze umane – nonostante le continue epifanie di un positivismo redivivo – oggi nessuno dubita che la forma del racconto sia un modello ermeneutico essenziale per una generale comprensione dei fenomeni sociali e antropologici – al punto che, diciamolo di passata, certe recenti infatuazioni per il cosiddetto storytelling appaiono come le classiche scoperte di un’acqua ormai fatalmente tiepida. Dall’altra, l’atteggiamento di Barthes verso il racconto è tutt’altro che chiaro, e sembra voler eludere, più che foraggiare, la questione fondamentale della sua centralità nella costruzione, trasformazione e traduzione delle culture. Per Barthes, il racconto è un oggetto di studio poiché bersaglio polemico, costruttore di quella verosimiglianza post-aristotelica che, almeno nella società di massa, costruisce segni per poi nasconderli, di quella pseudo-physis che regge in profondo l’ideologia piccolo borghese dei media. Qualcosa dunque che, esulando il dominio della scrittura letteraria (la quale, anzi, lo evita a più non posso), trova la sua ragion d’essere in quella specie di ipocrisia diffusa che è il regime semiotico della modernità occidentale